Gli indisciplinati – tutte le recensioni
Cinque eroi indisciplinati
«Storie del passato, degli anni Cinquanta, quando le corse erano rischio allo stato puro, una sfida aperta alla morte. Eppure, anche se si tratta di episodi che risalgono a quasi cinquant’anni fa, “Gli indisciplinati” si fa leggere tutto d’un fiato anche dalle giovani generazioni. Il segreto? Semplice, racconta con lo stile di un romanzo le vite da… romanzo di alcuni piloti di Formula 1 dell’epoca: Eugenio Castellotti, Alfonso Portago e Luigi Musso. Piloti che, insieme a Mike Hawthorn e Peter Collins, nella mente di Enzo Ferrari avrebbero dovuto costituire l’ossatura della propria scuderia per lungo tempo e che invece scomparvero nel giro di un biennio, tra il 1957 e il 1959, al volante delle Rosse. Gino Rancati aveva battezzato questo gruppetto “Ferrari Primavera”: ragazzi pieni di vita, resi celebri dalle corse ma che non vivevano di soli motori come accade oggi.
Questi ragazzi amavano godere i privilegi della loro vita da milionari, rendere il rischio un motivo di vita (Portago ad esempio si cimentava con discreto successo anche nel bob), fare tardi la notte, circondarsi di belle donne, in particolare stelle del cinema o del teatro. Delia Scala stava con Castellotti, Linda Christian (ex moglie di Tyrone Power) con Portago, Fiamma Breschi con Luigi Musso, prima di diventare l’amante del costruttore modenese. Quest’ultimo, ci è parso, non è trattato con i guanti bianchi, bensì come un padre-padrone che portava i propri “dipendenti” a esagerare pur di accontentarlo.
Nel volume di Luca Delli Carri edito da Fucina, le storie sentimentali si intrecciano con le emozioni delle corse, con i rapporti non sempre idilliaci nella scuderia e rendono appassionante ogni pagina. Il volume si arricchisce inoltre della preziosa testimonianza di Romolo Tavoni, che ha trascorso ben dodici anni presso la Casa di Maranello, prima come segretario particolare di Enzo Ferrari, poi come direttore sportivo».
Andrea Cremonesi, Gazzetta dello Sport
Cavalieri del rischio
«Immaginate cinque piloti come Schumacher, Barrichello, Hakkinen, Coulthard e Montoya, cioè i migliori campioni del momento. E immaginate che alla fine del prossimo anno siano tutti morti. È esattamente ciò che avvenne 45 anni fa, quando l’intera squadra Ferrari di Formula 1 – che allora non era composta da soli due piloti – venne decimata nel giro di due anni, tra il marzo del 1957 e il gennaio del 1959.
Luca Delli Carri, giornalista milanese, ha passato quattro anni a ricomporre la storia di questi piloti giovani, belli e di sicuro talento, che rappresentavano il volto nuovo della Formula 1 di quel tempo. E che si uccisero tutti al volante della propria auto. Ribattezzati dai giornalisti “Ferrari Primavera”, erano arrivati al massimo livello dell’automobilismo e si preparavano a sostituire definitivamente campioni come Juan Manuel Fangio e Stirling Moss. Erano Eugenio Casellotti, Alfonso Portago, Luigi Musso, Peter Collins e Mike Hawthorn. Tranne Musso, nessuno di loro ebbe il tempo di compiere i trent’anni, ma Hawthorn riuscì comunque a laurearsi Campione del Mondo.
Delli Carri fa rivivere, con una storia quasi romanzata e appassionante, ma molto fedele ai fatti accaduti, la loro vita da viveur in un libro che ha voluto pubblicare senza l’aiuto di grandi editori.
Un’avventura nell’avventura, che trasmette un prezioso valore aggiunto alle 512 pagine del libro: Luca Delli Carri ha curato tutto, dalla ricerca fotografica (con splendide foto, tra cui quelle di un maestro come Bernard Cahier) alla copertina, riuscendo a confezionare un prodotto di qualità e (anche) commerciale, che da settembre è in tutte le librerie per Fucina editore, a 34 mila lire».
GQ
Il Maestro e “gli indisciplinati” nella storia della Ferrari
«A Modena, il 2 dicembre 1956 c’era un clima da Emilia un po’ ricca e un po’ triste, un clima da dicembre con le giornate corte come la memoria di quei cinque folli e ricchi e viziati ragazzi. Giovani che volevano dimenticare in fretta il maestro, il pilota più grande, ammirato e temuto, che da campione del mondo aveva lasciato la Ferrari per passare alla rivale Maserati. Il Maestro era Fangio. I cinque corridori si chiamavano Eugenio Castellotti, Alfonso de Portago, Luigi Musso, Peter Collins, Mike Hawthorn. In due anni se ne andranno uno dopo l’altro: morti al volante, morti godendo del loro vizio-passione-lavoro. Il Maestro se ne andrà 39 anni dopo, spirando vecchio, saggio, ricco e famoso nel suo letto.
Senza più Fangio prima guida, inattaccabile padrone del team a cui cedere (si faceva così all’epoca) la monoposto solo l’avesse chiesto, i cinque giovani avevano finalmente la loro grande occasione. Alla presentazione un giornalista li soprannominò “Ferrari Primavera”. Solo pochi mesi prima Enzo Ferrari aveva detto al suo direttore sportivo di “lasciare liberi i ragazzi”, visto che Fangio, aveva tradito il Cavallino, visto che – come ripeterà spesso il commendatore – “il peggior avversario di un corridore di F1 è il suo compagno di squadra”, visto che così ogni suo pilota avrebbe dato il massimo.
Sono passati 45 anni, ma nel libro di Luca Delli Carri, “Gli indisciplinati”, le loro vite veloci sono raccontate calando il lettore in atmosfere e modelli di vita e di sport ormai lontani anni luce da noi. “Gli indisciplinati” diventa un romanzo storico della F1, dove i fatti sono alternati alla certosina ricostruzione del privato. Castellotti, de Portago, Musso, Collins e Hawthorn emergono quali erano: sono piloti, sono uomini, sono amanti, sono eroi, sono folli. Nulla a che vedere con i piloti robot di oggi, con i gelidi finlandesi, i precisi tedeschi, gli altezzosi inglesi, gli strani italiani.
Luigi Musso correva per passione sui circuiti e sui tavoli da gioco. Delli Carri racconta minuziosamente la vigilia del Gp di Francia, a Reims. La mattina della corsa Musso riceve una raccomandata da un suo socio d’affari: c’è scritto che sarebbe meglio intascare il premio per la vittoria così da sistemare i conti in rosso. Musso morirà poche ore dopo affrontando all’impossibile una curva impossibile. Voleva vincere per gloria, per affascinare Ferrari, per diventare il pilota numero uno, per pagare i debiti…
In questo romanzo della F1 che non c’è più, c’è la triste, fulminea, affascinante storia di Eugenio Castellotti, del suo tormentato rapporto con la madre, del suo amore patinato con l’attrice Delia Scala, di quel suo ultimo notturno viaggio stradale verso Modena per testare la Ferrari. Morirà quel giorno in prova davanti al commendatore. C’è il nobile spagnolo Alfonso de Portago, la sua innata capacità di conquistar bellezze e simpatie, la sua inverosimile scaramanzia che tradirà una volta sola, la mattina prima del via dell’ultima, tragica Mille Miglia, quella del ’57, quando rovesciando latte e tè capirà che non è giornata ma prenderà lo stesso il via. Poche ore dopo, il volo mortale che con lui e il copilota ucciderà nove spettatori. E poi il racconto delle vite veloci di Collins e Hawthorn, amici fraterni.
”Per ricostruire queste cinque storie ho impiegato quattro anni – racconta Delli Carri. Erano giovani che grazie a Ferrari correvano da campioni e non da gregari: sapevano che fino al Gp di Francia, a Reims, a metà stagione, si potevano giocare il tutto per tutto, dopodichè chi fosse stato davanti avrebbe ottenuto l’aiuto degli altri. Esattamente la politica inversa a quella adottata negli ultimi anni dalla Rossa: intendiamoci, una politica che fa bene e protegge il pilota e il risultato. Ma una politica che certamente non consente al corridore di dare il massimo… Barrichello è ricco, ben gestito, ma come pilota è anche triste per ciò che vorrebbe fare e non può… Insomma, una politica che ha perso per strada i duelli epici”. E per fortuna anche la morte ospite fissa dei Gran Premi».
Benny Casadei Lucchi, Il Giornale
A lezione di storia con Tavoni narratore
«Con qualche mese di colpevole ritardo ho trovato il tempo di gustarmi “Gli indisciplinati”, lo stupendo libro scritto da Luca Delli Carri su cinque giovanotti scelti da Ferrari a metà anni ’50 per correre con le sue vetture: Castellotti, Collins, Hawthorn, Musso e Portago, tutti giovani e tutti morti in fretta.
Il volume, di oltre 500 pagine, condensa una documentazione precisa e autorevole sposandola a una scrittura di ottimo livello, ma soprattutto aggiunge una parte colloquiale con Romolo Tavoni il cui valore è assoluto.
Affermare che questo sia il più bel libro mai scritto sulle corse in automobile è forse esagerato (bisognerebbe averli letti tutti e non solo tanti, come è capitato al sottoscritto), ma quello che si impara con le parole di Tavoni ha davvero pochi uguali. Romolo ha vissuto anni impetuosi alla corte del Drake ed è uno dei pochissimi che può ancora raccontarcelo. Un altro sarebbe Franco Gozzi, che gli è stato al fianco talmente a lungo da chiedersi tante volte se Ferrari era Gozzi o se Gozzi era Ferrari, tanto i due sapevano tenersi bordone. Gozzi, oltretutto, ha il dono dello scrivere e sarebbe un cantore eccellente, però è anche un fine politico: spesso lui ammicca e lascia intendere, fa capire e non capire, sorvola dove gli fa comodo, a volte anche inquieta.
Tavoni, invece, è un fiume in piena, non usa mezzi termini, va diritto al nocciolo, ha memoria d’elefante e capacità di sintesi straordinaria. Le sue rivelazioni sul vecchio, così poco melense e scontate, ci mostrano un uomo fuori dalla leggenda e dentro la vita. E così il mondo che gli girava attorno mezzo secolo fa. Uno spaccato di corse che con Tavoni diventa il quadro di un’Italia da corsa. Pagine in alcuni casi da urlo, davvero mai noiose.
Quando uno parla troppo bene di qualcosa, nel nostro mondo si dice che fa una “marchetta”. Non conosco però di persona Delli Carri né il suo editore e sinceramente mi sento dalla parte dei lettori consigliando di mettere questo libro, che costa oltretutto poco, sotto l’albero di Natale».
Carlo Cavicchi, SportAutoMoto
Storie di pazzi e di robot
«C’è chi smania per Johnny Depp, chi andrebbe a cena solo con Marco Tronchetti Provera, ma neppure una tra le ragazze del concorso Miss Italia sogna l’idillio con un pilota di formula uno. Sarà per via di quei sorrisi fotocopia alla Schumacher, sarà per l’aria da cane bastonato che Barrichello, per esempio, sfoggia in tutte le occasioni. Per non parlare dello stuolo di mogli e fidanzate fisse che popolano i box, prendono i tempi, confabulano con gli ingegneri: sempre presenti, quasi che la corsa dovessero vincerla loro. E poi che vita: qualifiche, corsa, interviste, briefing, fisioterapia, spazio per lo sponsor, palestra, test in pista, cena frugale in famiglia… Qualcosa non torna. Possibile che i protagonisti di un mondo dorato, milionari in dollari, onnipresenti sulla stampa e in tv non siano più oggetti del desiderio?
Eppure, ci fu un tempo nel quale il fascino del pilota rapiva le signore e ingelosiva i maschi. Erano gli anni 50, quelli degli spericolati al volante, raccontati da Luca Delli Carri, milanese, 31 anni, una passionaccia per i motori: Gli indisciplinati è l’incredibile storia di cinque giovani, non ancora trentenni, che il 2 dicembre del 1956 un raggiante Enzo Ferrari presentò alla stampa accanto alle monoposto che dovevano difendere il titolo mondiale. “Ferrari Primavera” battezza il giorno seguente la cinquina il giornalista Gino Rancati. Non c’è scherno. La consapevolezza, piuttosto, che a quei novizi è affidato il compito di rimpiazzare la generazione dei Fangio e degli Ascari. Belli, pieni di vita, amanti degli scherzi, del lusso, delle femmine a dozzine, Eugenio Castellotti, Alfonso Portago, Luigi Musso, Peter Collins e Mike Hawthorn moriranno nell’arco di due anni, tutti al volante di un’auto.
”Gli italiani avevano fame di eroi” rievoca Delli Carri. “Ne trovarono cinque in un colpo solo. Li veneravano, li aspettavano per ore sul ciglio della strada. Loro passavano come saette e sembravano bellissimi, bravissimi, migliori persino delle loro macchine”. Passione di massa, l’automobilismo esaltava le folle.
Accade di nuovo oggi, grazie a Michael Schumacher e a una strepitosa Ferrari, attesa domenica 18, a Monza, da 200 mila spettatori. L’atmosfera però è oggi diversa, gli uomini che siedono nell’abitacolo sono diversi.
Cominciamo dalle donne. Quel che i team oggi considerano un passo quasi obbligato, il matrimonio, il Drake lo vedeva come una iattura. Nel Gran premio di Germania del ’58, Collins si schiantò contro gli alberi che facevano da cornice alla pista. Ferrari diede la colpa dell’incidente a quel sì concesso dall’inglese, neppure un anno prima, a Louise Cordier King. Eppure, l’unione con l’attrice americana era piaciuta a tanti: lo scapolo impenitente aveva finalmente messo la testa a posto. Delle tante avventure di Castellotti (Sandra Milo, Anna Maria Ferrero, Edy Campagnoli), colpì il pubblico soprattutto quella con Delia Scala, la soubrette conosciuta nel ’56 al ristorante. Giorni e, soprattutto, notti di passione. Al mattino, con gli occhi pesti, i giri in pista. Il 14 marzo del ’57 Eugenio cercava il record a Modena: aveva dormito solo quattro ore dopo un litigio con Delia. Urtò il cordolo e la sua vita finì lì, a 27 anni.
Il marchese de Portago, nipote di re Alfonso XIII di Borbone, le donne invece le sfoggiava a mazzi. Aveva una moglie americana, Carroll McDaniel, sposata a vent’anni. La portava all’ippodromo, in mezzo ai Windsor, mai da sola però: c’erano Linda Christian, l’amante ufficiale, ex di Tyrone Power, e poi almeno una delle passioni occasionali. Delle donne di Musso, separato dalla moglie, la più famosa fu Fiamma Breschi, bellissima aspirante attrice. Dopo la morte del pilota si fece coraggio tra le braccia di Ferrari. Il biondo Hawthorn si limitava a non presentarsi mai due volte con la stessa signora. Oggi a tenere alta la bandiera del pilota playboy resta solo Eddie Irvine. Sempre lui, soltanto lui. Il simpatico irlandese, ex Ferrari, adora, pare, le modelle. Kate Moss, Kylie Minogue, Andrea Corr: un casting permanente. Sciupafemmine è diventato anche David Coulthard, ma solo da un anno a questa parte. La picchiata con l’aereo, in cui ha rischiato la pelle, pare gli abbia fatto cambiare idea sulla vita e sull’amore. Prima esisteva solo Heidi Wichlinki, statuaria modella del Wisconsin. Per il resto ritratti di famiglia: “Schumi” e Corinna (ex di Heinz-Harald Frenzen, oggi sposo di Tanja), Barrichello e Silvana, Hakkinen e l’immancabile Herja (dicono le malelingue che sia lei a mettere a punto la macchina), Alesi e Kumiko e così via, in un’interminabile sfilata di coppie monogame. “Ma non bisogna esagerare. Anche i robot sgarrano” sussurra Giorgio Terruzzi, caporedattore dello sport nella Mediaset. “È che non si fanno beccare. La campana di vetro in cui li costringono i team è impenetrabile. A qualcuno di noi ‘anziani’ del paddock è capitato di vedere Schumacher alle prese con sigaretta e birra. O forse è stata un’illusione”.
Se non fanno pazzie con le donne, i piloti forse le faranno con i soldi? Macché. Guadagnano molto (66 miliardi all’anno Schumacher, 18 Barrichello), ma investono con l’oculatezza di un ragioniere. “L’aereo e lo yacht sono le spese obbligate. Non per l’immagine, solo per comodità” racconta Benny Casadei Lucchi, inviato del Giornale. “Chi guadagna di meno l’aereo lo affitta; i fratelli Schumacher invece l’hanno comprato. Ralph ha quello più bello e lo pilota personalmente”. Lo yacht serve a isolarsi. Per Villeneuve è qualcosa di più, quasi una sfida con Irvine. All’irlandese, che tiene alla fonda a Marina degli Aregai il suo Anaconda, il canadese replica con il Bliss: 30 uomini di equipaggio e 13 milioni di dollari per averlo. “Persino Jenson Button, che pure aveva solo vent’anni, non brillò per fantasia al debutto: contratto con la Williams e yacht: Little Missy” ricorda Terruzzi. Investimenti oculati e spese obbligate, una ragione a ben guardare c’è: gran parte degli idoli del volante di oggi vengono dal nulla. Il padre degli Schumacher, Rolf, gestiva una pista di go-kart, Franco Alesi, immigrante siciliano, faceva il carrozziere, Harri Hakkinen era radioperatore nel porto di Vantaa e tassista.
Ben altre culle avevano accolto i cinque della Ferrari Primavera. “Una notte, al casinò di Venezia Musso si giocò 45 milioni, sufficienti all’epoca per acquistare dieci Ferrari granturismo” scrive Delli Carri. Il padre, Giuseppe Domenico, per 35 anni in Cina consulente legale del governo, aveva posseduto, tra l’altro, la compagnia tranviaria di Shanghai, poi la casa di produzione cinematografica Ici. L’avvocato morì tranquillo: “Lascio quattrini per quattro generazioni”. Il figlio comprò subito una Ferrari con interni di cinghiale e pulsanti in tartaruga bionda. Poi tante altre cose. Dopo quattro anni non era rimasto niente.
Avvocato era anche il padre di Castellotti, Francesco. Possedeva mezza Lodi. Quando morì, era il ’49, suo figlio pagò 60 milioni in tasse di successione. Poi, diciannovenne, acquistò una Ferrari, 50 abiti, 500 camicie, 100 paia di scarpe. Portago, a vent’anni, creò una squadra di polo e nel ’56 portò a sue spese alle Olimpiadi di Cortina il team di bob spagnolo. A fermare “il marchese senza bagagli” (comperava tutto sul posto) fu una gomma, scoppiata a 200 all’ora nella Mille miglia del ’57: 11 morti, tra spettatori e piloti. Enzo Ferrari amava tutti quei cinque guerrieri, nessuno in particolare. Il team veniva prima di tutto. Loro si amavano, si odiavano, si facevano scherzi tremendi. Oggi niente. A parte il materasso di Barrichello inzuppato in albergo, si dice, da Schumi e Luca Badoer, collaudatore Ferrari, durante l’annuale meeting con la stampa. Con l’arrivo del nuovo millennio, insomma, l’unico che se la spassa in formula uno, a dar retta ai rotocalchi rosa, non sarebbe un pilota bensì Flavio Briatore, team-manager della Benetton-Renault. Il quale però tiene a precisare: “Si accaniscono con me per quelle due settimane di vacanze che mi concedo. E tutto il resto dell’anno che lavoro come un cane?”».
Francesco Bucchieri, Panorama
«Oggi l’ordine è quello di favorire il pilota tedesco. Ma è sempre stato così? Nel 1956 il “Drake” ingaggiò cinque giovanissimi proprio perché non voleva primedonne. Disse: “Chi va più forte diventerà il numero uno”. Un libro ricostruisce la storia di quella sfida, che finì tragicamente.
Nel dicembre del 1956 Enzo Ferrari presentò alla stampa la sua nuova squadra corse. Al di là delle macchine, fece scalpore la compagine dei piloti: tutti giovani, alcuni addirittura giovanissimi, tanto che un giornalista della Gazzetta dello Sport la battezzò, molto calcisticamente, “Ferrari Primavera”. I loro nomi: Eugenio Castellotti, Luigi Musso, Alfonso Portago, Peter Collins e Mike Hawthorn. Due italiani, uno spagnolo e due inglesi: la loro storia è raccontata ora da Luca Delli Carri in un libro, Gli indisciplinati, sapiente miscela di saggio e romanzo, finalista del premio “Bancarella Sport” 2002.
Ed è una storia insieme bellissima e tragica. In meno di due anni gli “indisciplinati” morirono tutti e cinque, tutti al volante di una Ferrari tranne l’ultimo, Hawthorn, l’unico a coronare il sogno di diventare campione del mondo: si schiantò contro un albero, alla guida della sua Jaguar a Guilford, nelle vicinanze di Londra: era una piovosa mattina di gennaio e Mike, diretto nella capitale, improvvisò una gara con la Mercedes di un amico incontrato casualmente per strada.
Erano indisciplinati perché giovani, ricchi, affascinanti, tormentati e famosi: tutto era loro concesso e se a vent’anni sei il padrone del mondo in qualche modo devi pagare dazio. Per loro la tassa fu estrema, eccessiva, anche se, a vedere gli annali delle corse del tempo, si scopre con orrore che la morte era davvero dietro l’angolo, che anzi ci si deve stupire che non abbia mietuto di più, con i piloti seduti dentro contenitori in lamiera leggerissimi e potenti, con freni approssimativi e pneumatici ridicoli.
Ma se erano così bravi, come hanno potuto finire, tutti, così tragicamente? Secondo Delli Carri, ci fu un momento in cui, all’interno della Ferrari, cadde un principio sul quale, sino ad allora, si era fondato l’equilibrio tra i piloti della scuderia. La stagione appena conclusa aveva consacrato Juan Manuel Fangio campione del mondo su Ferrari. Per il fuoriclasse argentino era il quarto titolo mondiale di Formula 1, ognuno dei quali conquistato con auto diverse. Fangio era un talento assoluto, anche nella gestione di se stesso: un osso duro che Ferrari aveva dovuto subire, riconoscendogli privilegi, anche economici, che in passato mai aveva concesso ad altri. Alla fine di quell’anno, la collaborazione tra Fangio e il Cavallino rampante terminò.
Enzo Ferrari volle dunque una squadra giovane, formata da piloti di pari qualità, nessuno dei quali era però il campione assoluto, il vero leader. Fu a questo punto che si innescò un ingranaggio perverso. Ferrari disse che ognuno avrebbe dovuto correre al meglio e che, dopo tre corse, quello più avanti in classifica avrebbe potuto fregiarsi del ruolo di “prima guida”: era come dare in mano a dei bambini una pistola carica dicendo loro di giocare alla guerra. E guerra fu.
Gli indisciplinati racconta le storie di quei cinque ragazzi di buone speranze, accomunati solo da un’incontenibile passione per le corse, la guida veloce, il rischio. Per il resto avevano origini differenti e fragilità personalissime.
Eugenio Castellotti era figlio di una governante, ed era stato riconosciuto dal facoltoso datore di lavoro della madre solo all’età di nove anni. Alla morte del padre, Eugenio, già forte ed esuberante, diventa di colpo ricchissimo. Motori e solo motori nella sua testa. La chiamata di Ferrari non diventa un traguardo ma un punto di partenza. Quando tutto sembra andare per il meglio, nella vita di Castellotti irrompe un amore che cambia tutto, un amore che ha un nome famoso: Delia Scala. Eugenio ne è completamente ammaliato: pensa al matrimonio, e considera perfino l’idea di smettere di correre. Ma sua madre si oppone alla storia con la ballerina. Eugenio è lacerato tra il desiderio di vivere con la persona amata e l’amore verso una madre a cui deve tutto. Il tormento gli toglie la tranquillità. Pensieroso dopo l’ennesima discussione, esce di pista nell’unica curva impegnativa del banale circuito di Modena, provando una macchina. È il 14 marzo 1957. Ricco da sempre, vissuto nella bambagia di un nome e di una famiglia importanti, Alfonso Portago, marchese spagnolo, incarnava perfettamente la figura del nobiluomo afflitto dalla malinconica superiorità del rango. Sposato e amante per anni dell’ex moglie di Tyrone Power, Linda Christian, con la sua morte, avvenuta durante la Mille Miglia il 12 maggio 1957, Portago segnò la fine della corsa, che da quell’anno non si disputò più, e l’inizio di una lunga polemica (con ampi strascichi giudiziari) che vide coinvolto Ferrari in merito alla sicurezza delle sue auto.
Anche per l’altro italiano della “Ferrari Primavera”, Luigi Musso, i problemi economici non esistevano, almeno finché era stato in vita il padre. L’ossessione per il gioco l’aveva poi trasformato in un delapidatore di patrimoni. A Reims, nel Gran Premio di Francia del 6 luglio 1958, Musso uscì di pista a oltre 250 orari in una curva difficile, dall’inquietante nome di Calvaire.
Peter Collins abitava a Montecarlo, su uno yacht ormeggiato al porto. Bello ed elegante, si era fatto una fama di pilota abilissimo e altruista. Già nel ’56, a Monza, l’ultimo Gran Premio della stagione, aveva ceduto la sua macchina a Fangio, consentendogli di diventare campione del mondo e rinunciando alla vittoria. Storie di altri tempi, soprattutto oggi che infuriano le polemiche sugli ordini di scuderia in Formula 1. Anche di lui si pensava che avrebbe avuto tutto il tempo di conquistare il titolo. E invece la sua storia si fermò il 3 agosto 1958 in una stupida curva di Nürburgring.
Forse si poteva fare qualcosa per evitare che finissero tutti così. Ma quello delle corse è un mondo duro dove, per gli indisciplinati, non c’è mai stato molto posto».
Alessandro Giudice, Sette
«Nel mondo delle corse, il 1956 fu un anno trionfale per due uomini allora alleati. Alla guida di una Ferrari, l’argentino Manuel Fangio conquistò il suo quarto campionato del mondo; il terzo consecutivo, dopo le vittorie su Mercedes del biennio precedente, e in aggiunta al titolo del 1951 su Alfa Romeo. Ma la stagione segnò anche la fine di un difficile rapporto fra l’allora quarantaquattrenne pilota e il costruttore di Maranello, al punto da portare l’anno dopo Fangio in Maserati. Sulla quale vincerà il quinto alloro, per un ineguagliato record che il solo Michael Schumacher può tuttora insidiare. Ma, alla chiusura di quel 1956, è Enzo Ferrari che sembra avere le carte vincenti per la nuova stagione. Presentando, il 2 dicembre a Modena, la monoposto già campione del mondo e una squadra con cinque corridori di sicuro talento. Mediamente poco più che venticinquenni e subito salutati con il nome di “Ferrari Primavera”, come giovani destinati a dominare a lungo il mondo della Formula 1. Invece periranno tutti nel lampo di due anni, a bordo delle loro auto: Eugenio Castellotti, Alfonso de Portago, Luigi Musso, Peter Collins, Mike Hawthorn. I primi quattro al volante di una Ferrari da corsa, tra il marzo 1957 e l’agosto 1958; mentre il quinto sarà nel 1958 il primo pilota inglese ad aggiudicarsi il titolo iridato, abbandonando le gare alla fine dell’annata. Ma un mese e mezzo dopo, il destino lo befferà alla periferia di Londra, quando la sua berlina Jaguar uscirà di strada in una piovosa mattina.
L’emozione suscitata dalla tragica sequenza fu enorme, in un’opinione pubblica che in quegli anni aveva trasformato la passione per le automobili in uno sport di massa. Del quale erano interpreti i mitici piloti che sfrecciavano sui circuiti e lungo le strade, cercando di ottenere vittorie esaltanti. Che li rendevano personaggi ammirati e spesso al centro delle cronache mondane, come nel caso degli amori di Eugenio Castellotti con Delia Scala o di Alfonso de Portago con Linda Christian. Ma pagando il prezzo di quella vita dorata con il rischio di una guida sempre al limite, conclusa da incidenti di difficile spiegazione.
Aspetti sui quali indaga il complesso lavoro di Luca Delli Carri (Gli indisciplinati, edizioni Fucina, 512 pagine, 17,56 euro), che non si limita alla cronaca sportiva del periodo né alla meticolosa ricostruzione degli episodi fatali. Ma che, in una scrittura quasi da romanzo, si addentra nelle vicende personali di figure rimaste vive nell’immaginario di molti. Anche per le singolari coincidenze che li accomunarono; come il fatto che, tranne Collins, ancora ragazzi erano tutti rimasti orfani di padre. Una figura che forse credettero di ritrovare in Enzo Ferrari, anch’egli privato dell’unico figlio Dino proprio nel giugno del 1956. Ma fu lo stesso costruttore a non volere alcuna priorità nei ruoli di squadra, né preferenze sul piano degli affetti: “Per me il numero uno è quello che vince”, era solito dire. Anche se Ferrari scriverà poi, su quelle morti: “Io mi sento solo, dopo tanti allucinanti avvenimenti, e quasi colpevole di essere sopravvissuto”».
Paolo Malagodi, Liberal
«Ultimamente ho avuto la fortuna di acquistare un libro che è salito di colpo fra i miei preferiti, si tratta di “Gli Indisciplinati” di Luca Delli Carri.
Ne consiglio vivamente l’acquisto in modo da conoscere tutti quegli aspetti che purtroppo, data la nostra età, non abbiamo potuto apprezzare dal vivo.
Brevemente posso anticiparvi che tale opera parla della vita e della morte di cinque giovani piloti Ferrari.
Detto questo passiamo ora direttamente alla voce dell’autore del libro che, contrariamente a quello che si potrebbe pensare è giovane (32) e non ha vissuto direttamente quell’epoca. Per l’occasione ho contattato Massimo Bacilieri (Crononauta), in modo che grazie alle sue conoscenze e alla sua passione per il mondo della F1 di tutti i tempi ponesse le domande a Luca Delli Carri.
GPX: Domanda scontata: cosa può spingere a scrivere un libro come questo? È evidentemente un libro per appassionati puri, i ventenni di oggi hanno visto le battaglie tra Senna, Prost, Piquet e Mansell da bimbi e ne hanno vaghi ricordi. Per loro la F1 è Damon Hill, J. Villeneuve, Schumacher e Hakkinen e poco più. Allora… perché un libro su questi piloti?
LDC: Non è un libro per appassionati puri, o almeno non solo. È un libro di storie che hanno a che fare con le corse, con la velocità. È un libro che un ventenne potrebbe leggere proprio perché oggi le storie di uomini coraggiosi sono state sostituite dalla prestazione di atleti-computer con la mentalità del ragioniere.
GPX: Tavoni. Come riportato nella prefazione, certe volte sembra co-autore del libro. Come è nato l’incontro con Tavoni? Un caso, o una scelta?
LDC: Prima è stato un caso, poi una scelta. Non è un co-autore, è qualcosa di più: è l’ispiratore, il motivo scatenante.
GPX: Enzo Ferrari: il libro è la storia di persone (Tavoni e “i Ragazzi”) nati – sportivamente parlando – e cresciuti con questa inquietante presenza alle spalle. E spesso, addirittura davanti. Ferrari ha avuto un peso in tutte le storie che si intrecciano nel libro. Ma allora, è un libro sui piloti, su Tavoni, oppure in realtà è solo un grande pretesto per guardare l’opera di Enzo Ferrari come non era mai stata vista?
LDC: Non è un pretesto, è un libro su cinque ragazzi e sulle persone che ruotavano loro attorno. Ma è vero che viene fuori un Ferrari inedito.
GPX: Più volte si trovano evocati episodi quasi comici, grotteschi nella loro ingenuità (tipo Portago che perde minuti su minuti in una corsa perché l’auto ha un cambio a denti dritti e lui non sa fare a usarlo!). E’ difficile per noi, abituati all’automobilismo iper-professionale di oggi, credere che potessero capitare cose così! Ma era vero, oppure sono episodi tramandati dalla storia, ma ingigantiti dagli anni e dal passaparola?
LDC: Solo verità. Per capire l’aria che tirava, basta pensare che le auto non venivano modificate in pista: l’assetto era fatto in fabbrica, e questo valeva tanto per la Ferrari quanto per Mercedes o Vanwall. Si può anche dire che tutto il resto era una conseguenza.
GPX: Una morte è sempre una cosa inspiegabile. Ma a parte Portago, quelle di Castellotti, Musso, Collins e Hawthorn sembrano essere delle tragedie umane prima che errori di gara. E’ difficile, oggi, credere che in quegli anni ci fossero persone così “umane” alla guida di bolidi così potenti e così instabili quanto pericolosi. Non è che si è voluto cercare una spiegazione anche laddove magari la verità era più prosaica ma più pratica?
LDC: Tutto può essere: incidenti che sono stati interpretati come “umani” possono essere “meccanici”. Io, sulla base di tutta la documentazione consultata e delle testimonianze raccolte, ho dato la mia versione/interpretazione dei fatti, riportando gli elementi fondamentali per supportare la mia ipotesi. Ma si tratta appunto di ipotesi, non tesi: nessuno, e sottolineo nessuno, potrà mai dire se la macchina di Castellotti si sia rotta oppure no, se l’acceleratore di Hawthorn si sia bloccato a fondo corsa oppure no. Certo, ci sono più dubbi per quanto riguarda Castellotti che non Musso, Collins e Hawthorn.
GPX: Parlare di Musso, Portago ma in particolare di Castellotti fa inevitabilmente ritornare ad Ascari. Nel libro si accenna al fatto, ma quanto in effetti ha pesato la morte di Ascari, per una eventuale “lotta per la successione”? Può davvero un pilota superare i limiti per voler essere quello che non è e non può essere?
LDC: Lottarono per diventare i migliori non di Ascari ma di Fangio, e fu una lotta dura. A volte un uomo è disposto a tutto per arrivare dove vuole.
GPX: Tavoni descriveva Hawthorn come un pilota diverso da tutti gli altri, più metodico, più “professionale”. Il fatto che sia diventato campione del mondo, è una conseguenza di questo, oppure è perché è diventato campione che Tavoni lo ammirava più degli altri?
LDC: Credo entrambe le cose. Comunque la personalità di Hawthorn, anche a detta di altri, era davvero travolgente, esuberante all’eccesso, perfino impegnativa. E poi era alto e biondo, inglese più della pioggia, veloce come un fulmine e gran bevitore di birra: come si può non amare un uomo così affascinante, e così diverso da tutto quello che ci viene propinato oggi come prototipo dell’uomo di successo?».
Paolo Gianello, GPX
«La discreta fiction sulla vita di Enzo Ferrari, recentemente trasmessa da Canale 5, farà sicuramente da traino alla pubblicazione od alla ristampa di molti libri sulla sua grande avventura umana, sportiva ed imprenditoriale, sicuramente la più esaltante tra quelle che hanno creato nel mondo la leggenda del made in Italy. Luca Delli Carri esordisce con un’opera prima veramente encomiabile su quello che forse è stato il periodo ruggente della Ferrari in quanto, seppur andato in scena dopo la metà degli anni Cinquanta, può essere considerato quale il canto del cigno dell’epoca eroica delle corse.
Siamo nell’ultimo periodo dell’era segnata e dominata da Fangio; è la storia dei due anni antecedenti il 1959, prima che Brabham e la Cooper imponessero con la forza delle loro vittorie la superiorità del motore posteriore, inaugurando così la Formula 1 moderna. Nel 1956 Enzo Ferrari, violentando uno dei suoi principi più cari, aveva ingaggiato il pilota più forte di tutti, Juan Manuel Fangio, già tre volte campione del mondo: l’argentino di origini abruzzesi vincerà il suo quarto titolo, ma la convivenza di due caratteri così forti si rivela problematica fin dall’inizio e si scioglierà alla fine dell’anno tra mille polemiche, proseguite fino alla scomparsa di entrambi i protagonisti.
Nel 1957, il Drake vara così la “Ferrari primavera”, una squadra composta da cinque piloti giovani, di gran classe e di grande temperamento: gli inglesi Mike Hawthorn e Peter Collins, gli italiani Eugenio Castellotti e Luigi Musso, lo spagnolo Alfonso de Portago, i migliori esponenti, con Stirling Moss, di una generazione che sembra destinata a cambiare il volto della F.1. Questo progetto si concluderà tragicamente solo l’anno dopo, con la vittoria mondiale di Hawthorn, ma anche con la morte di tutti e cinque i suoi protagonisti, preceduta e quasi adombrata dalla scomparsa di Dino, l’adorato erede di Enzo Ferrari.
Il bel libro di Delli Carri è la storia degli ultimi romantici dell’automobilismo, di un’esperienza del vivere, del correre e del morire assolutamente “altra” rispetto a quella odierna, caratterizzata dalla sicurezza (fortunatamente…), dall’esasperazione del business e del marketing,e praticamente sconosciuta alla stragrande maggioranza degli attuali appassionati. È il romanzo vero di cinque ragazzi diversissimi tra di loro per origini, motivazioni e cultura, accomunati dall’amore per la macchina e per la vittoria e dal loro coraggioso confrontarsi con la figura del campionissimo (Fangio), apparentemente inarrivabile ed invincibile. Ed è anche il romanzo di un Uomo, straordinario “agitatore di talenti”, la cui carismatica e medianica energia li porterà al di là dei loro limiti e che, proprio in seguito a quelle cinque tragedie, vivrà il periodo più difficile di una fantastica esistenza, corroso dal rimorso e messo brutalmente sotto accusa da un’opinione pubblica che lo metterà sotto processo ed arriverà a definirlo “un moderno Crono che divora i suoi stessi figli”. Nascerà da allora un nuovo Enzo Ferrari, che si ritirerà gradualmente sempre di più in sè stesso, che ordinerà al figlio Piero di non stringere mai amicizie con quei piloti sottoposti ad una sorte tanto precaria e che s’imporrà di mantenere con loro i rapporti più distaccati; almeno fino a quando, molti anni dopo, un piccolo ragazzo venuto dal Canada lo farà tornare giovane per l’ultima volta ed il cui sacrificio glielo farà ricordare, caso unico tra tutti i grandi piloti da lui conosciuti, con le parole: “Io gli volevo bene…”».
Cesare de Sanctis, indiscreto
Gli eroi effimeri
«Eugenio Castellotti, Alfonso Portago, Luigi Musso, Peter Collins, Mike Hawthorn: chi saranno mai? Carneadi anche per gli appassionati di Formula 1. Eppure si tratta degli Schumacher e dei Barrichello degli anni Cinquanta. Piloti che hanno contribuito con le loro imprese a costruire il mito Ferrari. A sottrarli dall’oblio ha pensato Luca Delli Carri con Gli indisciplinati. Il saggio, con avvincente piglio narrativo, segue la fulminea parabola di campioni scomparsi nel giro di due anni, immolati a quella costruzione di miti di cartapesta che Roland Barthes proprio in quegli anni vedeva nascere dalle rotative dei giornali popolari».
Mimmo Stolfi, Gentleman
«Il mondo delle corse automobilistiche, così come lo vediamo oggi, sembra davvero soltanto un grande business che ben poco ha a che fare con lo sport (cosa in parte vera) ed i suoi protagonisti sembrano anonimi robot senz’anima, ma c’è stata un’epoca in cui i campioni del volante apparivano come antichi cavalieri senza macchia e senza paura che avevano soltanto sostituito il destriero a quattro zampe con quello a quattro ruote.
Ma era davvero così? Certamente no, anche se quel mondo è molto cambiato; questo libro di Luca Delli Carri entra nel profondo di un mondo che in quegli anni cinquanta, in cui non erano ancora del tutto rimarginate le ferite della guerra, c’era tutto quello che faceva sognare gli italiani; un mondo di fiaba intrecciato con quello altrettanto ammaliante dello spettacolo, un mondo fatto di gioventù, di agi, di belle donne, fatto di bella vita ma soprattutto di tanti, tanti, tanti soldi.
L’autore, giornalista ed ex pilota, racconta le circostanze che hanno portato alla morte cinque giovani piloti della Scuderia Ferrari negli anni dal ’57 al ’59: Eugenio Castellotti, Alfonso Portago, Luigi Musso, Peter Collins e Mike Hawthorn e lo fa in un modo particolare, con una tecnica narrativa in cui prevalgono frasi brevi, spesso brevissime, che sembrano quasi richiamare le brutali accelerazioni e le brusche frenate di una macchina da corsa. Sulle prime è spiazzante e la lettura, non certo scorrevole, sembra noiosa ma poi, una volta capito come affrontarla, tutto cambia (come in pista…) ed il racconto, anzi la cronaca, procede come un film in cui il lettore vede la scena ora dal bordo della pista, ora dall’interno dell’abitacolo.
A rendere interessante questo libro anche per chi non è appassionato di automobilismo è la parte che racconta l’uomo, con le sue particolarità, le sue stranezze ma soprattutto con i suoi difetti ed i suoi vizi: è qui che troviamo risposta alla domanda che ci viene spontanea: chi glielo faceva fare? La risposta può essere più di una: la passione può bastare all’inizio, ma è subito chiaro come per ognuno di questi eroi mitologici dell’era moderna la spinta fosse un’altra, ben più profonda.
La parte migliore sono però le interviste che l’Autore mette alla fine di ogni singolo capitolo, realizzate con Romolo Tavoni. Il Direttore Sportivo della Scuderia Ferrari di quegli anni racconta fatti e soprattutto personaggi con ruvida schiettezza ma con una capacità di interpretare entrambi che non è solo figlia dell’osservatorio privilegiato di cui ha potuto beneficiare ma anche di una grande capacità di capire le persone, anche quando si tratta di personalità forti e tutt’altro che semplici come quella di Enzo Ferrari.
È quasi scontato consigliare questo libro a chi è appassionato di corse automobilistiche, ma credo che possa essere una lettura interessante per tutti, specialmente per chi è interessato a scandagliare l’animo umano».
Claudio Castellari, Spigoli&Culture